Felicità raggiunta, si cammina
per te sul fil di lama.
Agli occhi sei barlume che vacilla,
al piede, teso ghiaccio che s’incrina;
e dunque non ti tocchi chi più t’ama.
Se giungi sulle anime invase
di tristezza e le schiari, il tuo mattino
e’ dolce e turbatore come i nidi delle cimase.
Ma nulla paga il pianto del bambino
a cui fugge il pallone tra le case
Ho intervistato Valerio Varesi al telefono. Lo scorso giovedì. Pomeriggio di nebbia. Quando l’ho chiamato la prima volta, ho apprezzato la sua generosa disponibilità. L’avevo già incontrato a Ferrara: presentazione del film “Il risveglio del fiume segreto” di Paolo Rumiz. Come amico e curioso conoscitore del grande fiume Po, Valerio ha partecipato alla creativa spedizione fluviale. L’avevo ascoltato: mi aveva affascinato il modo riflessivo di raccontare, impreziosito dall’accento parmigiano e dal timbro di voce. Gentile.
Quando ho aperto il blog “Il Passero Escursionista” dedicato a “Viaggi minimi”, eco sostenibili e di resistenza civile, ho rubricato il suo nome nella cartella Telefonate da fare.
È stata un’intervista ricca di digressioni in bilico tra giornalismo, ecologia, letteratura. Io: parlando di un eco sistema eteroclito e fragile, come Valerio spiega, ho pensato “Panta rei os potamòs”. Tutto scorre lungo il fiume, dice Eraclito.
Così, Valerio ci ha raccontato come scorre Po il Grande, cartografando la pianura e le sue genti.
Bè, vi lascio leggere. Ne vale la pena e poi … andate a trovare il grande fiume. Oltre a scorrere, sa attendere.
Il Passero Escursionista: Come è nata la tua partecipazione al film “Il risveglio del fiume segreto”?
Valerio Varesi: Oltre ad essere amico di Paolo Rumiz, sono anche un esperto di Po vivendo a Parma da sempre, pur non essendovi nato. Inoltre, conosco bene queste zone perché qui ho ambientato i gialli del Commissario Soneri (prodotti dalla RAI; protagonista Luca Barbareschi, n.d.r.). Quindi: ho acquisito una certa competenza, essendomi sempre interessato alla vita di questo fiume.
Il Passero Escursionista: Valerio, pensando a Po, viene in mente il documentario di Mario Soldati “Gente del Po”. Partecipare al film è stata anche un’esperienza antropologica. C’è un tratto umano dominante di chi vive lungo il fiume?
Valerio Varesi: il tratto umano più significativo è quello della percezione del limite e la capacità di convivere con esso. Le persone che vivono lungo il fiume conoscono il significato della parola. Vivono con naturalezza l’idea della Natura madre, ma anche matrigna. Ricordo l’anno della piena del 2000, più importante di quella del 1951: si guardava con operosità e fiducia quello che stava accadendo, mentre l’evento – visto dalla televisione – era raccontato con toni tragici. Racconti molto diversi.
Il Passero Escursionista: nel tempo del controllo, affidarsi alla Natura sembra un gesto rivoluzionario …
Valerio Varesi: Eppure … il Po si è creato negli anni (o nei secoli) invasi naturali: le golene. L’uomo ha creato (tempo addietro) argini di golena per contenere il fiume entro un certo letto nei casi di piene “normali” e poter coltivare così tutta l’area che va da questo argine di golena fino all’argine maestro. In parole semplici: a lato del letto principale, esistono dei margini molto ampi coltivati con insediamenti colonici che rappresentano le “casse di espansione naturali” del fiume. Esistono tra Piacenza e Reggio Emilia. Sarebbe meglio dire sopravvivono, perché altrove sono state eliminate.
Il Passero Escursionista: oltre ad esperienza antropologica, è stata anche etnografica. Ci sono molti aspetti della civiltà materiale lungo il Po che lo rendono affascinante. Penso alla gastronomia, ad esempio.
Valerio Varesi: La specificità della gastronomia qui è legata soprattutto ad un pesce: lo storione. Per le genti del Po è stato l’equivalente di fiume del maiale. Ma oggi lo storione non esiste più nel Po da anni, almeno dal grande inquinamento cominciato con l’attività industriale (ora c’è il siluro, pesce danubiano introdotto anni fa e molto meno selettivo in fatto di pulizia delle acque). Forse, lo storione potrà essere reinserito con acque migliori in futuro a patto che le opere umane (vedi dighe) non impediscano alla specie la riproduzione.
Il Passero Escursionista: Però la zona del Po è stata definita ‘Mesopotamia d’Italia’, alludendo alla sua fertilità. Questo ha creato indotto economico …
Valerio: parlare di indotto economico no, non si può. Un conto è la pianura che dal Po trae benefici, altra cosa è vivere lungo il fiume che, oltre ad essere inquinato, non è neanche valorizzato neanche dal punto di vista turistico. Potrebbero essere pensati percorsi ciclabili come quelli presenti nel Nord Europa, i cui cittadini vengono qui a trascorrere vacanze ecologiche. Gli italiani lo fanno meno: la zona – dal punto di vista turistico – non è stata valorizzata. Pensare che il Po possa creare reddito per chi vi vive accanto, è ancora lontano dal realizzarsi. Sarebbero necessari investimenti che, a oggi, non ci sono.
Il Passero escursionista: E adesso … Il commissario Soneri. La nebbia è una metafora letteraria che torna nei tuoi gialli in cui il commissario indaga.
Valerio Varesi: la nebbia è uno stimolo creativo che obbliga a superare l’incertezza che emana. Non a caso questa è una terra di creativi, proprio perché il limite apparente della nebbia ti impone di andare oltre. È in questo duplice effetto di limite e stimolo che si muove il Commissario Soneri per risolvere i crimini sui quali deve indagare.
Il Passero Escursionista: Qual è il tratto più bello di Po?
Valerio Varesi: non lo dico per campanilismo, ma per me quello che va da Piacenza alla provincia di Parma. Oltre che per la presenza delle golene, anche per i luoghi verdiani: Busseto, Parma, bellissimi posti da visitare.
Il Passero Escursionista: ci lasci una frase da mettere, come augurio, nello zaino de Il Passero Escursionista?
Valerio Varesi: mi piace ci sia qualcuno che si occupi di questi temi con sensibilità. Che il blog cresca!
“Non ho mai tanto pensato, tanto vissuto, non sono mai tanto esistito, stato tanto me stesso, se così oso dire, quanto in quelli (i viaggi) che ho compiuto da solo e a piedi.
La marcia ha qualcosa che anima e ravviva le mie idee: non posso quasi pensare quando resto fermo; bisogna che il mio corpo sia in moto perché io vi metta il mio spirito. La vista della campagna, il susseguirsi degli aspetti piacevoli, l’aria aperta, il grande appetito, la buona salute che acquisto camminando, la libertà della locanda, la lontananza da tutto quel che mi richiama alla mia situazione, tutto ciò libera il mio animo, conferisce più audacia al mio pensiero”.
“Camminare significa aprirsi al mondo, l’atto del camminare riporta l’uomo alla coscienza felice della propria esistenza, immerge in una forma attiva di meditazione che sollecita la piena partecipazione di tutti i sensi. È un’esperienza che talvolta ci muta, rendendoci più inclini a godere del tempo che non a sottometterci alla fretta che governa la vita degli uomini del nostro tempo. Camminare è vivere attraverso il corpo, per breve o lungo tempo. Trovare sollievo nelle strade, nei sentieri, nei boschi non ci esime dall’assumerci le responsabilità che sempre più ci competono riguardo ai disordini del mondo; ma permette di riprendere fiato, di affinare i sensi e ravvivare la curiosità. Spesso camminare è un espediente per riprendere contatto con se stessi»
La mia terra. Si chiama Emilia Romagna. È l’unica regione che abbia preso il nome da una strada. E siamo abituati a partire, a tornare e a veder passare una gran quantità di gente.
Così dice Enrico Brizzi all’inizio del film, mentre si inerpica con un amico e la regista, Serena Tommasini Degna. Pantaloncini corti e lo stemma di Italica tatuato sulla gamba destra. Un punto rosso contro il verde attorno: è la sua giacca anti vento. La musica sotto sembrerebbe una ballata di Tom Waits. Ma no. È la colonna originale del film:
‘I was walking hours, walking hours, walking something on’. Bella.
Sotto traccia, l’imprimatur filosofico del viandante: la domanda “Partire. Perché?”
Enrico ha una risposta Pop, Iggy Pop: ”Lust for life”.
Il Passero Escursionista, girovagando per il film, ha rintracciato altri buoni motivi per andare. E, Moleskine alla Bruce Chatwin alla mano ma rossa, ha preso appunti e divagato … tra le tappe preferite.
Nuvole sopra la tappa 1, Berceto, Parma: Vedo, vedo appena verso il cielo, grandi masse di nuvole, malinconicamente lente ruotano, silenziose si espandono, si fondono con qualche stella ogni tanto che mesta appare e scompare, velata, lontanissima.
Walt Whitman da “Foglie d’erba”.
Erba: L’erba – a tratti brughiera d’Appennino – si diffonde lungo il film, come un’ubertosa onda verde che sale e scende, assecondando l’Alta Via.
‘L’erba che fino a sera annuisce al vento’ direi, se fossi Franco Fortini.
Alberi: sosta alla tappa 11-12, tra i patriarchi di castagno a Poranceto. Sequoie domestiche da frutto, simbolo di un’economia di sussistenza, presidio di comunità. Essiccatoi e farina di castagne, etnografia d’altura.
Tappa 15. Fumetti: Castel del Rio e il Ponte Alidosi. Ultima casa per Magnus, papà di Tex. Un ricordo piccolo, piccolo. Primi anni Novanta. La Bologna “fumettara”. Bonelli sotto il portico del Pavaglione. Il sabato, la fila lungo le scalette che andavano al piano di sopra. Complice: il ricordo di un bellissimo viso, quello di Paz. Ha abitato vicino casa mia.
Con la tappa 16 si arriva a Brisighella, molti ricordi davanti all’insegna “Gigliole”. Non è chiaro se sia qui che Enrico impara a tirare la “spoja lorda”. È bellissimo, però, sotto il Ponte degli asini in primavera, quando i fiori di pesco trasformano la collina in un gigante soffione rosa. Non perdete il ‘Museo del tempo’ mi raccomando!
L’Amore sosta alla tappa 17 e 18. Marradi, linea gotica, provincia di Firenze, albergo Lamone, Natale 1916: epicentro di passione per Sibilla Aleramo e Dino Campana. Amore infelice, appassionato, irrisolto e tragico perché ‘Tutto va per il meglio nel peggiore dei mondi possibili’ – Dino Campana.
Arte: fermo un giro, piccola deviazione. Ma quei pochi chilometri la meritano. Modigliana. Silvestro Lega. I Macchiaioli. Macchia, cifra del rivoluzionario stile pittorico verista tra Ottocento e Novecento; abbasso: il conformismo purista del punto e della linea. Non si può perdere: ‘Mazzini morente’ di Silvestro Lega alla pinacoteca di Modigliana. Girovagate.
Acqua. Cascate dell’Acquacheta. Siete alla tappa 19-20. Il rumore vi fa pensare al fiume Flegetonte, a Dante? Siete prevedibili. Piuttosto: portatevi un iPod. Ri-ascoltatela. Il richiamo all’acqua è solo una scusa. Ma ogni scusa è buona per riascoltare una canzone così. By this river, Brian Eno. Col cammino ha a che fare. Parecchio.
Muschio: Capisco, adesso, perché questa passione ha attecchito in me così durevolmente: rispondeva a ciò che ho di più vivo, il senso della provvisorietà.
Camillo Sbarbaro “Licheni”
Adesso che avete imparato a digredire, potete continuare da soli per l’Alta Via. Avvertenza: nel film non c’è la notte. E allora camminate. Dormite in tenda o in rifugio. Ma partite. Cercatela “walking on the wild side”, mi duole dirlo questa settimana. Ma partite. E … trovatela, prima di arrivare al cinquecentesimo chilometro sul Monte Carpegna, trovatela. Raccontatela: da Castagno d’Andrea, il ferro da stiro della pietra di Bismantova o La Verna, stalattiti di geologie diverse d’Appennino. Ma partite. Aspettiamo segnali nel buio. Al limite, accendete la luce lungo l’Alta Via dei Parchi. La luna, le stelle o la frontale faranno il resto. E tendete l’orecchio. Lo dice anche Enrico: sull’Alta Via è tornata la fiaba. Perciò, potreste sentire un ululato.
L’altro giorno ho ritrovato nella borsa una scarpetta.
È una piccola calamita a forma di scarponcino che qualcuno mi ha donato tempo fa.
Chi me l’ha regalata non poteva certo immaginare quali sensazioni di movimento avrei collegato al suo dono riscoprendolo per caso tra le mie cose.
Quell’oggetto banale nella sua semplicità ha riacceso in me, per intricate e complesse associazioni, l’impulso a una linea di cammino che va oltre il fisico passeggiare.
Guardandolo, all’improvviso, mi sono sentita ancora una volta profondamente un po’ flâneur…
Chissà, forse si sentivano così certi artisti europei che, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del secolo successivo, percorrevano a caso le strade delle città nell’intento di coglierne l’anima e i suoi battiti reconditi.
Di sicuro loro sapevano meglio di me chi era un flâneur perché ne vivevano, talvolta con tormento, la condizione in ogni sfumatura umana, ma anche artistica (basti pensare al poeta Baudelaire).
Io, al contrario, non sono che un’incallita camminatrice troppo spesso affascinata dall’immagine dello scrittore che, passeggiando per ogni dove, sperimenta le tante dimensioni della realtà fisica e .… spirituale. Sì, perché il flâneur non è solo e semplicemente il dandy che in solitudine e meditazione passeggia senza meta, ma anche e soprattutto un girovago dell’anima e in questo senso non è certo figura confinabile all’Europa letteraria di un preciso quadro cronologico-culturale.
Si può essere flaneur in ogni epoca storica così come in qualunque momento e-o estrinsecazione della propria vita. E ricordo la scarpetta nella borsa.
Lo dice con chiarezza anche il grande scrittore svizzero Robert Walser, quando nel 1919 scrive un breve racconto: “La passeggiata”.
La trama dell’opera ci porta in una cittadina svizzera con i suoi dintorni agresti dove Walser ci guida a perlustrare, attraverso e oltre i luoghi fisici, i labirinti della mente, quelli che aprono il cuore agli incontri più fortuiti e inaspettati, dunque proprio per questo illuminanti. Al lettore attento non sfuggirà certo che nel racconto non è Walser che ci conduce in realtà, ma le sue parole.
Nel flusso narrativo le sue parole si muovono come scarpette e creano, passo dopo passo, particolare dopo particolare, una rete di scrittura “nomade”, oserei dire senza senso e volutamente dissociata nell’intento di cogliere gli aspetti più incongrui del circostante. Lo stesso scrittore si lascia portare dalle sue parole in un percorso mai precostituito come solo può esserlo quello della tedesca Wanderung (a volerlo tradurre, potremmo renderlo con l’italiano passeggiata- vagabondaggio) dove si incontrano (e ognuno può vederci i propri) tipi e figure disparati colti in una prospettiva di estraniamento rispetto ad ogni rapporto funzionale col mondo.
Ne “La passeggiata”, dunque, l’incallito camminatore che Walser ci fa conoscere e sperimentare si allontana a grandi passi dal trekker fisicamente impegnato così come dal letterato flâneur in cerca di emozioni in mezzo al groviglio imprevedibile dei quartieri urbani.
È l’uomo che lo scrittore ci presenta, l’uomo nel suo quid esistenziale che sfugge alle griglie storico-sociali e finanche a quelle culturali, l’uomo libero, l’escursionista del pensiero che ognuno di noi nel profondo desidera e teme di essere.
Walser ci invita a cercare passeggiando ciò che molti per paura o pigrizia troppe volte credono impossibile essere …
“Lei non crederà assolutamente possibile che in una placida passeggiata del genere io m’imbatta in giganti, abbia l’onore d’incontrare professori, visiti di passata librai e funzionari di banca, discorra con cantanti e con attrici, pranzi con signore intellettuali, vada per boschi, imposti lettere pericolose e mi azzuffi fieramente con sarti perfidi e ironici. Eppure ciò può avvenire, e io credo che in realtà sia avvenuto”.
Non so voi, ma a me queste parole aprono nuove piste di cammino e pensiero.
Da parte mia continuerò a portare la scarpetta nella borsa nella speranza che, ritrovandola ogni volta, mi doni un modo diverso di andare per il mondo.
Giulia Martorelli
Giulia Martorelli: laureata in Lingue e letterature straniere all’Università di Bologna, è una cultrice della lingua tedesca. Insegnante, ha inseguito un sogno che l’ha portata – scarpette da trekking ai piedi – fino al mare.
Era una mamma così: ironica, divertente, sghemba e intempertante quella che - con un battello, a bordo di quattro figli e un circo di animali domestici – si trasferisce a Corfù vendendo la sua casa in Inghilterra. Motivo? Curare una grave epidemia di catarro pediatrico per curare una grave epidemia di catarro invernale, trasferendosi a Corfù nell’unica villetta col bagno dell’isola. Rosa.
Il piccolo Gerald:
“… una strada fiancheggiata di fichi d’India che parevano una palizzata di lamine verdi ingegnosamente in equilibrio l’una contro l’orlo dell’altra, e chiazzate dalle protuberanze dei frutti scarlatti. Rasentammo vigneti dove le viti minuscole e stente erano inghirlandate di foglie verdi, uliveti dove i tronchi butterati ci facevano un’infinità di smorfie stupefatte dall’oscurità delle loro ombre, e grandi ciuffi di canne zebrate che agitavano le loro foglie come una massa di verdi bandiere”.
da Gerald Durrel, La mia famiglia e altri animali, Adelphi
Enrico, meriti il titolo di ‘Appenninauta’. Sei il protagonista, infatti, del docu-film ‘Alta Via dei Parchi’, regia di Serena Tommasini Degna. Nel film, cammini da Berceto – Parma – al Monte Carpegna – Pesaro Urbino – attraversando le stagioni come Marcovaldo. Raccontaci come è iniziata …
Il mio rapporto con l’Appennino è iniziato… Prima che io nascessi. La mia famiglia, infatti, è originaria di Castel di Casio, e “viene giù con la piena” solo nel secondo Ottocento. Ancora ci sono lassù facce amiche e vicende care; sono tante le storie familiari di emigrazione, viaggio, avventura, e per i ragazzini la vera prova d’iniziazione era proprio il partire.
Quanto a me, negli ultimi anni ho compiuto due traversate a piedi da costa a costa (dal Tirreno all’Adriatico nel 2004; dall’Adriatico al Tirreno nel 2009) e presto mi cimenterò per la terza volta con questa “classica”; credo siano queste credenziali che hanno spinto la Regione Emilia-Romagna ad affidarmi la scrittura e l’interpretazione del documentario dedicato all’Alta Via dei Parchi.
Serena Tommasini Degna, invece, si è guadagnata una solida nomea di “regista on the road” partecipando al viaggio “Italica 150” fra Alto Adige e Sicilia del 2010, dal quale ha tratto un lungometraggio presentato al Trento Film Festival 2011, e successivamente proiettato a Milano, Roma, Bologna, e nelle sale del circuito d’essai emiliano-romagnolo.
Aggiungi che il direttore di produzione, Valerio Gnesini, era stato il mio partner nel viaggio da 90 tappe della primavera-estate 2006 lungo la Via Francigena, e capirai che si tratta di un film progettato e realizzato tra fidati compagni di strada. ‘Ammodernare il mondo con zelo’, l’utopia di chi emigrava in città negli anni Sessanta lasciando la montagna. Ora, lungo l’Alta Via dei Parchi, tornano a vivere i vecchi borghi grazie al ri-flusso ‘verso casa’. Rinascono la cucina regionale e le antiche tradizioni. Raccontaci …
Ho la fortuna di viaggiare a piedi svariate settimane ogni anno, e questo mi ha permesso di posare lo zaino in paesini che, altrimenti, sarebbero stati solo nomi sulla carta geografica. Conoscere la cosiddetta “Italia minore”, quella dove la televisione non riesce ad appiattire i costumi e la gente non si comporta in maniera urbanamente stereotipata, è una grande risorsa e una stupefazione continua: se ne potrebbe parlare ore, magari intorno a un fuoco di bivacco, ma qui mi limito a osservare che ogni viaggio a piedi è anche un viaggio verso il cuore delle nostre paure e dei nostri pregiudizi. Se l’uomo che arriva alla fine di un viaggio non è più lo stesso che era partito, è anche perché le sue certezze e le sue presunte verità sono state sgretolate dall’esperienza.
Voce del verbo ‘Camminare’, rivoluzionario gesto di consapevolezza fisica. Ma l’escursionista – camminando – usa la carta, la bussola, scruta le nuvole, contempla, fotografa e – tu lo insegni – narra. Camminare lungo l’Alta Via coinvolge il trekker e il flâneur, il corpo e – sbrigativamente – lo spirito. Tu, da che parte st…, ehm, cammini? La risposta ha a che fare con ’Psicoatleta?’
Gli Psicoatleti sono il club dedicato ai viaggi a piedi del quale ho l’onore di essere l’Araldo.
All’inizio – una decina di anni fa – non eravamo che dodici amici; oggi a essere dodici sono le batterie psicoatletiche sparse per l’Italia, e pronte a intervenire ai nostri appuntamenti: “Campodimaggio”, grande viaggio annuale, test match di fine estate e cimento autunnale.
All’ultimo “Giro delle Tre Venezie” hanno partecipato a staffetta più di cinquanta “buoni cugini” (così, secondo l’usanza carbonara, ci chiamiamo fra noi), e siamo costretti ogni volta, con rammarico, a lasciare a casa i meno lesti ad iscriversi.
L’incanto: ‘Una volta, la gente che doveva attraversare la montagna si fermava qua e attendeva … l’incanto… Era considerato come uno spirito buono, di protezione, di compagno di strada che stava con i viaggiatori fino allo scavalcamento della montagna e ora … anche noi lo attendiamo’. Sono le parole del professor Balla ne ‘Una gita scolastica’ di Pupi Avati, una camminata lungo la Via degli Dei che congiunge Bologna a Firenze lungo l’Appennino. Credi in un legame magico tra chi cammina e la Natura?
“Una gita scolastica” è un gran bel film: gite così dovrebbero avere spazio anche nelle scuole odierne, scuole che al momento preparano i ragazzi soprattutto a stare seduti, e a mantenersi al riparo nel cuore del gruppo.
Detto questo, non so se parlerei di magia, ma è evidente che l’essere umano ha nel suo DNA migliaia di anni trascorsi nei boschi e sulle montagne; ecco perché ci si sente subito – o quasi – a casa, e si ha la sensazione di fare una cosa buona e giusta. (Ed ecco anche perché ci si rovina a trascorrere quattro ore al giorno dentro un’automobile, e otto dentro un ufficio con le luci artificiali e l’aria condizionata).
Il vero mistero, per me, è come certa gente trovi il coraggio di non partire mai.
Enrico Brizzi, scrittore E psicoatleta. Il Camminare vira, nel 2005, i tuoi romanzi verso nuove mete. In ‘Nessuno lo saprà’, il primo a raccontare ‘la viandanza’, attraversi l’Italia dall’Argentario al Conero. La ragione del coast-to-coast sembra autobiografica. Guidaci …
Il protagonista del libro ha trent’anni, ed è appena diventato padre. Felice per il nuovo arrivo, è anche angosciato da tutte le nuove incombenze che il ruolo richiede, e frustrato dalla nuova piega del suo rapporto di coppia. Così rispolvera lo zaino che usava a vent’anni, e decide di partire per un viaggio a piedi insieme a suo fratello e un pugno di amici fidati.
Autobiografico o no? Credo semplicemente sia la storia di tanti uomini che non vogliono trasformarsi “in morti viventi”, e devono continuamente bilanciare forze statiche (il senso di responsabilità proprio degli adulti) e ultradinamiche (l’insopprimibile lust for life che si portano dietro fin da ragazzi).
Con ‘Bastogne’, tuo secondo romanzo, hai scrutato il cuore e la testa degli anti-eroi. Francesco Guccini e Loriano Machiavelli nella trilogia ‘Gente d’Appennino’, nascosti tra i vecchi borghi e le osterie, ne scovano parecchi. Quanti narratori d’osteria, quante ‘vite minime d’Appennino’, la cartografia di quali personaggi ci saranno nel tuo prossimo romanzo?
Il migliore, a mio modo di vedere, resta lo zio Ulisse Brizzi: lungo naso frangivento e baffi da moschettiere, ha lavorato tutta la vita sulle navi da crociera e, una volta che il transatlantico Majestic faceva scalo cinque giorni a Saigon, è sceso a terra e si è incamminato verso la zona delle operazioni. «Ne parlavano tutti, di ‘sta guerra del Vietnam» si giustifica ancor oggi, se ti siedi con lui al tavolo della locanda di famiglia e gli domandi di raccontare. «Era lì a due passi, mica potevo non andarla a vedere».
Dal suo punto di vista, la guerra era come una finalissima, o un concerto imperdibile, e c’è andato davvero: ha corrotto i militari vietnamiti, e si è spinto dove nessun civile avrebbe dovuto essere.
«Volavano dei gran aerei!» racconta, con un sorriso deliziato. «Un casino che non si capiva niente! Poi mi hanno beccato gli Americani della MP, la polizia militare. Credevano fossi una spia russa, e mi hanno rivoltato le tasche. Dovevate vedere le loro facce quando hanno letto sui documenti “Ulisse Brizzi, Castel di Casio, Italia”! “Giornalist?” ha domandato uno dei due. Allora ho spiegato: “No giornalist! Holidays!”, e quelli si sono guardati come fossi matto. Poi hanno controllato il tesserino da commissario di bordo del Majestic, e hanno capito che dicevo la verità. Peccato che mi abbiano fatto subito tornare a Saigon: di guerra, a ‘sto modo, ne ho vista pochina».
La notte del viandante. La sospensione del camminare e l’interstizio tra i giorni evocano parole: tenda, rifugio, stelle, frontale, sacco lenzuolo, camini, stufe, chiacchiere, filosofia d’altura. Raccontaci le tue notti lungo l”Alta Via dei Parchi’.
Le notti che scandiscono i lunghi viaggi a piedi sono le più propizie per dormire profondamente, e ognuna di esse è un nido di sogni da interpretare, con calma e devozione, alla luce del giorno.
Mai è arrivato in sogno qualcosa di diverso da una verità sacrosanta, e per restare in equilibrio fra la razionalità che ti spinge a rispettare la tabella di marcia, e la dimensione onirica che ti porterebbe a danzare nudo nei boschi come il dio Pan, fra Psicoatleti abbiamo l’usanza di estrarre il “tarocco del giorno”. Non è, ovviamente, la divinazione il nostro fine: gli arcani maggiori non svelano il futuro, ma suggeriscono temi sui quali riflettere nel corso della tappa.
Piccola regressione infantile: hai incontrato lupi? Sull’Appennino passa anche la loro via … Accontentaci: hai sentito almeno un ululato?
Credo che i lupi siano animali speciali, cari a tutti i viandanti in quanto sono il vivo emblema della natura selvaggia e i padroni delle foreste notturne. Vederli è difficile, trovarne le tracce no, e ascoltarli nemmeno. Gli ultimi ululati li abbiamo sentiti sabato scorso al confine fra Toscana e Montefeltro; il sole era calato da poco, noi si finiva la tappa, e i lupi cominciavano la loro.
I vecchi patriarchi, affascinanti monumenti verdi che da secoli danno ombra ai viandanti, sono il nostro museo preferito. Presentacene uno: lo andremo a visitare.
Lungo l’Alta Via dei Parchi, a poca distanza dal Lago del Brasimone, c’è un posto magico che si chiama Poranceto: è la casa di castagni vecchi cinque secoli, e il posto perfetto per un nascondino fra amici.
Il Passero Escursionista e’ un ‘Poeta degli oggetti’: il suo zaino, complice la visione del film ‘Moonrise Kingdom’ di Wes Anderson, esplode di equipaggiamento al limite del collezionismo. C’è un oggetto da escursionisti cui sei particolarmente legato? Vediamo se è lo stesso nostro.
Fatti salvi gli articoli essenziali, negli zaini entrano anche oggetti-feticcio, preziosi per l’equilibrio psicofisico del camminatore (in questa categoria rientrano i piccoli peluche e i playmobil affidati dalle mie quattro figlie all’inizio dei viaggi). Restando agli articoli da escursionismo, però, ho un rapporto quasi patologico con il “distanzometro” a rotella che mi aiuta, la sera, a ripercorrere sulle mappe l’itinerario appena percorso e a pianificare la giornata successiva.
Enrico, l’intervista è terminata, invece il cammino de ‘Il Passero Escursionista’ è all’inizio. Regalaci una frase: la metteremo nello zaino.
Il cielo è coperto, la montagna è coperta.”Fuori di casa”, la poetica di Montale sul viaggio; fuori di casa la poetica del sabato in bicicletta.
Un viaggio, fino al tavolo di un bar: gite, uscite, relazioni, lezioni.
Un viaggio, al centro del dovere per stanarlo dove rischia di perdersi nella fretta del quotidiano, quando l’importante è prevaricato dall’urgente.
Un coraggioso tentativo di ripristinare una gerarchia oramai mendace riconoscendo il primato dell’ontologico sul transeunte, di provare – per un altro sabato – a pedalare contro.
Per chi negli ultimi anni fosse stato rapito dagli alieni, è doverosa una premessa capace di rispondere al seguente quesito: «Cosa diavolo è un Hipster?»
Innanzitutto sarebbe bene usare il “chi”, dato che l’Hipster è una tipologia di essere umano nato a Williamsburg, zona del quartiere di Brooklyn newyorkese, e da lì poi emigrato in tutto il globo terraqueo.
Si tratta di un’intellettualoide che ama la cultura alternativa ed evita invece come la peste bubbonica la massificazione in ogni sua declinazione.
Letteratura best seller, cibo da supermercato, moda da grandi magazzini, sport gettonati, cine-panettoni… ecco quali sono i nemici numero uno dell’hipster più incallito, che a questi predilige titoli sfornati dall’editoria indipendente, alimenti biologici e gourmet, abiti sartoriali o vintage acquistati in garage market, pellicole presentate al Sundance Film Festival, sport come il bike polo e le bocce, tanto per citarne alcuni.
E, tanto per citarne un altro, un passatempo per cui gli hipster di oggi vanno letteralmente in visibilio è l’escursionismo.
Dal momento che uno dei suoi tratti peculiari è l’essere ecologico e rispettare la natura, non c’è hobby che possa meglio sposarsi con questa sua eco-filosofia del trekking.
Eppure non si tratta solo di green-philosophy e passeggiate en plein air: ad attirare inesorabilmente a sé quell’allodola dell’hipster è la quantità di specchietti luccicanti che il mondo dell’escursionismo offre.
Stiamo parlando della miriade di accessori e gadget kitsch&chic assiepati nell’armadio, nei cassetti e sulle mensole del mountain-addict, ossia gli zaini, i coltellini svizzeri, le borracce multicolor, gli scarponcini, le T-shirt a tema, ma anche i sacchi a pelo e le tende tanto vintage da riprodurre fedelmente addirittura la muffa degli anni Settanta.
Visto che l’estetica hipster ha trovato nuova linfa vitale nella pellicola diventata cult ancora prima di uscire nelle sale, ossia Moonrise Kingdom di Wes Anderson, quella del Boy Scout è diventata una delle tante divise ufficiali dei radical nerd baffuti&occhialuti.
Ma andiamo ad analizzarla nel dettaglio, partendo dal vestiario per poi completare il tutto con una carrellata sugli accessori must have.
Il guardaroba del vero hipster escursionista si compone dei seguenti indumenti:
- calzettoni con fantasie nordiche tipo cervi e fiocchi di neve
- maglietta con stampa/scritta ironica che prenda in giro gli escursionisti
- scarponcini da trekking modello vintage
Una volta recuperati tutti questi capi d’abbigliamento, è d’uopo occuparsi del resto del necessaire, in primis passando al setaccio gli accessori pratici e utili per poi scadere nel kitsch mero e puro, elencando alcune delle tante “buone cose di pessimo gusto” alla Gozzano con cui si può riempire il proprio zaino.
Ecco dunque la lista della spesa dell’escursionista fashion:
- zaino (da scegliere delle seguenti marche: Herschel, Fjällräven, Freitag, Vans o al massimo North Face)
- borraccia rigorosamente ecologica e in alluminio della SIGG
- bussola vintage recuperata in soffitta dalla nonna
- eBook Reader possibilmente con pannelli solari per ricaricarlo ecologicamente
- se proprio siete ancora legati al cartaceo, libro di almeno seconda o terza mano che verta sul mondo dell’escursionismo, dall’Almanacco delle Giovani Marmotte al The Backpacker’s Field Manual
- taccuino Moleskine per annotare pensieri da escursionista, tipo “Alle ore 14.00 mi sono fermato all’ombra di una quercia e ho osservato una cinciallegra giocare in una pozzanghera”.
- matita da temperare rigorosamente con il coltellino
- mappe come piovesse
-binocolo per birdwatching
- lanterna vintage
- torcia ecologica a dinamo
Ora siete pronti per partire alla volta di qualche vetta sperduta.
E non dimenticatevi di instagrammare la qualunque.
Camilla Sernagiotto
Camilla Sernagiotto è giornalista freelance e autrice televisiva. Si occupa di musica, cinema, moda e lifestyle. Ha pubblicato i romanzi Sushiettibile e I bambini sono nati con successo e per Fazi, ne Le Meraviglie, il doppio romanzo Circuito Chiuso/Annales, (nel 2012 al primo posto nella classifica degli eBook più venduti in estate da Amazon).