Scendere alla meta
Giulia Martorelli ci ha regalato queste parole.
Un’esortazione civile alla profondità in cui leggerezza è conquista, non assenza di consapevolezza: dedicato a tutt* coloro che vivono “leggermente” in presenza, senza lacune.
Sul costone che digrada verso la spiaggetta dei Pescatori c’è una scala.
Più volte l’ho percorsa per raggiungere il mare: sempre con lo stesso, rigenerante senso di estraniamento perché in questo caso è la discesa che ti porta alla meta.
Certo: a me – nata tra monti e colline – questo senso è una vera stranezza.
Ho vissuto la mia infanzia nel forte abbraccio di una catena di cime più o meno alte e ho maturato i miei sogni e le mie speranze camminando per sentieri ripidi e tortuosi dove è la salita che conduce al traguardo.
Camminando su questa scala invece per arrivare si scende.
Qui, gradino dopo gradino, si stempera nella mia mente la forza e il fascino della filosofia della montagna conosciuta e vissuta dall’adolescenza quando, leggendo Platone, scoprivo che “il rischio” delle ascese in montagna “è bello”.
Fino a quando poi adulta, influenzata da Nietzsche – la “Filosofia è libera scelta di vivere tra i ghiacci e le alte cime” - mi sono aperta alle appassionanti suggestioni della mistica tedesca. Meister Eckhart ha versato sul mio pensiero l’idea che un cammino in salita ti offre gli strumenti per la tua crescita cognitiva e la tua elevazione spirituale: “Sulle vette dei monti trovi il distacco per raggiungere il fondo dell’anima”. Questo il messaggio ricorrente nelle predicazioni in cui il filosofo e teologo domenicano spesso delineava le sue salite ai colli della Renania come una metafora di ascetica contemplazione.
Mi chiedo se e come sarebbe cambiato il credo di questo grande pensatore tedesco se, anche lui, avesse potuto percorrere giù fino alla spiaggia questa scala.
Qui, gradino dopo gradino, il mare ti avvolge coi suoi venti o le sue brezze e ti conduce ad un piccolo, suggestivo lembo del Golfo di Castellammare.
Sulla riva ghiaiosa, l’immensa conca d’acqua che si apre ai miei occhi sembra una culla: vi dormono placidi alcuni pescherecci. Talvolta ce n’è uno che si allontana insieme alla mia fantasia.
Penso ad Ulisse, navigatore d’eccellenza, “l’uomo che molte volte fu sbattuto fuori rotta” e che pure, nonostante le mille traversie, vide un giorno all’orizzonte comparire la sua Itaca. Dopo vent’anni di viaggio l’eroe omerico non perde la bussola forse perché navigando nelle acque del mare ha il coraggio di guardare giù e affrontare le correnti della sua anima per scoprire se stesso e le sue debolezze.
Mentre faccio questa riflessione, un sub si muove tra i fondali bassi e rocciosi quasi vicino alla riva: la sua presenza agisce come una rivelazione. Non è il suo verso che determina il senso di un cammino. Che esso sia in salita o in discesa, che porti alla montagna o al mare poco conta, immagino mi avrebbe detto Eckhart se avesse potuto accompagnarmi sulla scala . L’importante è che per acqua o per terra, ogni viaggio prenda prima o poi una direzione verticale come quella di un sub, giù o su, verso il fondo dell’anima – ho la presunzione di aggiungere io.
Guardo ammirata il promontorio del Capo di San Vito che si staglia a Ovest a chiusura del Golfo e non a caso mi viene in mente il curioso titolo di un libro di Paolo Rumiz che racconta di un viaggio speciale dalle Alpi agli Appennini, dal mare della Dalmazia allo Ionio calabrese: “La leggenda dei monti naviganti”. Nel racconto, Rumiz si sposta come un navigante che veleggia tra le montagne emerse – “naviganti”- perché, dice lui, “per le avventure ci si imbarca, anche quando sono avventure di terra”.
Qui davanti allo splendido Golfo di Castellammare non faccio certo fatica ad immedesimarmi nell’inviato de La Repubblica e in un attimo sono in barca come lui. Provo un rigenerante senso di estraniamento. Intorno e dentro di me si crea un vuoto da cui, come da una sorgente, emergono le parole di Pasternak: “silenzio, tu sei la cosa migliore che abbia mai sentito”
Un famoso pensiero di S. Agostino irrompe da questo mio silenzio: “E vanno gli uomini ad ammirare le vette dei monti, ed i grandi flutti del mare, ed il lungo corso dei fiumi, e l’immensità degli oceani, ed il volgere degli astri. E si dimenticano di se medesimi.” Gli fa da eco il motto che Socrate aveva tante volte letto sul frontone del tempio di Delfi: “Conosci te stesso”.
Socrate aveva fatto di questo motto un cardine del suo pensiero. Lo predicava con coraggio e spregiudicatezza e spesso lo arricchiva di sfumature preziose come quella che si può cogliere in un’affermazione, stavolta propria del filosofo della ricerca e del dialogo: “La conoscenza di se stessi nasce dallo stupore.”
Lancio un ultimo sguardo al paesaggio incantevole che ho raggiunto dalla scala, ne percorro a ritroso i gradini con la consolazione che lo stupore provato di fronte alla bellezza del Golfo con il suo mare e la montagna non potrà che aiutare la fatica della salita ad avvicinarmi a me stessa.
Giulia Martorelli