Confessioni di un Passero Escursionista

8 ottobre 2014 at 18:40

passero e scarpone

Ciao a te che leggi.

Non so chi tu sia, ma da qualche parte ci saremo incontrati. Ho solo un anno e pochi mesi, ma di persone ne ho incontrate tante per terra e per mare. C’è chi dice che dovrei cominciare a volare: si è mai visto un uccello che non vola? “Ma io sono Il Passero Escursionista!”, ho ricordato e – anche se le mie ossa sono cave come quelle degli altri uccelli e il mio muscolo pettorale è forte – sono piccolo e pieno di entusiasmi ma … da qui a volare! E il peso dello zaino? Mi chiedo. È possibile volare lasciando tutto lì dentro? Perché la mia mania di accumulo è poderosa, inutile negarlo, e tutto finisce lì – visi, ricordi, biglietti, oggetti, mail, parole dette, non dette, acquisti non sempre responsabili – e via ad ingrossare il carico. Di una cosa sono certo: non sono un passero zen. Annodo le scarpe allo zaino purché lascino posto a una frivolezza. Insomma: sono un passero contraddittorio! Ebbè, che c’è? Vi piacciono i monoliti? I supersicuri? Quelli che sanno sempre da che parte stare? I predicatori? Non leggetemi perché sono curioso, aperto e spesso mi appassiono degli opposti.

“Mi contraddico?

Sì, mi contraddico.

Sono vasto.

Contengo moltitudini”

dice il poeta Walt Whitman. Non penso per antinomie, ma per giustapposizioni talvolta acrobatiche, lo ammetto. E allora? Forse sarò un Passero Anarchico, ma timido. No: ipertrofico nel pensiero, ma non un rivoluzionario. Non mi piace il conflitto e considero valore la mediazione. Mi ritengo un tipetto complicato, un grattacapo per gli appassionati di sfide. Diciamo che vivo con adeguatezza il mio tempo: non sono tempi difficili? Ecco: forse sono un Passero un po’ filosofo. Peripatetico, direi.

Camilla Paolucci

Illustrazione: Francesco persi

 

 

Gabriel Garcìa Marquez

19 aprile 2014 at 09:43

salire la china

Ho imparato molte cose da voi, dagli uomini.
Ho imparato che tutti vogliono sedere in cima alla montagna, ma la differenza la fa come si sale la china.

Gabriel Garcìa Marquez

Vienna per me: il Leopold

14 aprile 2014 at 09:00

vienna pasticceria heinz

Camminare per Vienna è un’esperienza proteiforme, mutevole.  Il centro urbano ruota intorno ad una grossa ferita: quella del 1918. Fine della guerra e crollo degli Asburgo. ‘Il secolo breve’ di Hobsbawn qui è sembrato cortissimo: il rammarico regna sovrano.  Ma basta spostarsi fuori dal ring e dirigersi al Leopold Museum: filologicamente, si riprende il discorso dove l’aveva lasciato l’Hofburg, la residenza asburgica nel centro della città.  Il Leopold è l’incubatore della Vienna che, diminuita politicamente dal preludio della fine, rilancia alla conquista di una nuova frontiera culturale: «Uno dei tratti caratteristici della vita viennese di quel tempo era costituito dai continui, agevoli scambi tra scienziati e artisti, scrittori e pensatori. L’interazione con gli studiosi di medicina e di biologia, e anche di psicoanalisi, influenzò significativamente la ritrattistica di questi artisti» Ernst Kandel, L’età dell’inconscio. Arte, mente e cervello dalla Grande Vienna ai nostri giorni  I nomi della frontiera interculturale? Egon Schiele, Gustav Klimt, Oskar Kokoshka, Sigmund Freud, Artur Schnitzler: ai ponti tra scienze esatte e umanistiche; tra l’essere e la sua interpretazione gettati dai tre artisti e i due medici, è dedicato questo bianco e stilisticamente perfetto parallelepipedo, collettore di un pezzo di storia d’Europa scaturigine di riflessioni sull’uomo e la sua natura attraverso discorsi, letteratura e arte figurativa guardando ciò che è attraverso ciò che si prova, portando alla ribalta del visivo il sentimento, le emozioni, gli impulsi: cadeva l’assioma della razionalità della mente umana.  Il percorso espositivo è reso coerente dalla ricostruzione ‘ben temperata’ del mood storico culturale: la narrazione, in alcune sale, lascia spazio alle collezioni di design e all’illustrazione (nasceva in questo periodo il liberty – qui chiamato Jugenstile stile – e con esso l’illustrazione pubblicitaria. Per gli appassionati, davvero bellissimi i manifesti di ispirazione giapponese).  L’ideale è andarci di mattina presto: la visita è lunga. Imperdibile pranzare alla cafeterìa del museo (posti che spesso meritano una visita indipendentemente dalla mission culturale!): ambiente tutto vetro a sbalzo -arredato con mobili di materiale moderno, design liberty – su quella che d’estate è una piscina scoperta (qui, il divertimento è cultura). Buonissimo il risotto alle rape rosse guarnito con il rafano. Il suo colore? Rosa candy, stesso colore di sapore freudiano di alcuni dettagli dei quadri di Egon Schiele, in cui la sofferenza dello stare al mondo assume – in alcuni punti del viso e del corpo – questo colore solo apparentemente solare.  La foto allegata è una tappa obbligata: pasticceria Heinz. Ambiente deco, vetri di Boemia, poltroncine di velluto rosso, boiserie in legno, farmacopea al cioccolato!

Camilla Paolucci

Rimettiamoci in cammino

11 aprile 2014 at 05:30

rimettiamoci in cammino

“Non lasciare tracce che il vento non possa cancellare, non adagiarti sui passi compiuti, non lasciarti trattenere, divaga per altri sentieri, rimettiti in cammino per cercare ancora”

Bruce Chatwin

Scendere alla meta

9 marzo 2014 at 10:22

la spiaggietta.jpg

Giulia Martorelli ci ha regalato queste parole.
Un’esortazione civile alla profondità in cui leggerezza è conquista, non assenza di consapevolezza: dedicato a tutt* coloro che vivono “leggermente” in presenza, senza lacune.

Sul costone che digrada verso la spiaggetta dei Pescatori c’è una scala.
Più volte l’ho percorsa per raggiungere il mare: sempre con lo stesso, rigenerante senso di estraniamento perché in questo caso è la discesa che ti porta alla meta.
Certo: a me – nata tra monti e colline – questo senso è una vera stranezza.
Ho vissuto la mia infanzia nel forte abbraccio di una catena di cime più o meno alte e ho maturato i miei sogni e le mie speranze camminando per sentieri ripidi e tortuosi dove è la salita che conduce al traguardo.
Camminando su questa scala invece per arrivare si scende.
Qui, gradino dopo gradino, si stempera nella mia mente la forza e il fascino della filosofia della montagna conosciuta e vissuta dall’adolescenza quando, leggendo Platone, scoprivo che “il rischio” delle ascese in montagna “è bello”.
Fino a quando poi adulta, influenzata da Nietzsche – la “Filosofia è libera scelta di vivere tra i ghiacci e le alte cime” -  mi sono aperta alle appassionanti suggestioni della mistica tedesca. Meister Eckhart ha versato sul mio pensiero l’idea che un cammino in salita ti offre gli strumenti per la tua crescita cognitiva e la tua elevazione spirituale: “Sulle vette dei monti trovi il distacco per raggiungere  il fondo dell’anima”. Questo il messaggio ricorrente nelle predicazioni in cui il filosofo e teologo domenicano spesso delineava le sue salite ai colli della Renania come una metafora di ascetica contemplazione.
Mi chiedo se e come sarebbe cambiato il credo di questo grande pensatore tedesco se, anche lui, avesse potuto percorrere giù fino alla spiaggia questa scala.

la scala

la scala

Qui, gradino dopo gradino, il mare ti avvolge coi suoi venti o le sue brezze e ti conduce ad un piccolo, suggestivo lembo del Golfo di Castellammare.
Sulla riva ghiaiosa, l’immensa conca d’acqua che si apre ai miei occhi sembra una culla: vi dormono placidi alcuni pescherecci. Talvolta ce n’è uno che si allontana insieme alla mia fantasia.
Penso ad Ulisse, navigatore d’eccellenza, “l’uomo che molte volte fu sbattuto fuori rotta” e che pure, nonostante le mille traversie, vide un giorno all’orizzonte comparire la sua Itaca. Dopo vent’anni di viaggio l’eroe omerico non perde la bussola forse perché navigando nelle acque del mare ha il coraggio di guardare giù e affrontare le correnti della sua anima per scoprire se stesso e le sue debolezze.
Mentre faccio questa riflessione, un sub si muove tra i fondali bassi e rocciosi quasi vicino alla riva: la sua presenza agisce come una rivelazione. Non è il suo verso che determina il senso di un cammino. Che esso sia in salita o in discesa, che porti alla montagna o al mare poco conta, immagino mi avrebbe detto Eckhart se avesse potuto accompagnarmi sulla scala . L’importante è che per acqua o per terra, ogni viaggio prenda prima o poi una direzione verticale come quella di un sub, giù o su, verso il fondo dell’anima – ho la presunzione di aggiungere io.
Guardo ammirata il promontorio del Capo di San Vito che si staglia a Ovest a chiusura del Golfo e non a caso mi viene in mente il curioso titolo di un libro di Paolo Rumiz che racconta di un viaggio speciale dalle Alpi agli Appennini, dal mare della Dalmazia allo Ionio calabrese: “La leggenda dei monti naviganti”. Nel racconto, Rumiz si sposta come un navigante che veleggia tra le montagne emerse – “naviganti”- perché, dice lui, “per le avventure ci si imbarca, anche quando sono avventure di terra”.
Qui davanti allo splendido Golfo di Castellammare non faccio certo fatica ad immedesimarmi nell’inviato de La Repubblica e in un attimo sono in barca come lui. Provo un rigenerante senso di estraniamento. Intorno e dentro di me si crea un vuoto da cui, come da una sorgente, emergono le parole di Pasternak: “silenzio, tu sei la cosa migliore che abbia mai sentito”
Un famoso pensiero di S. Agostino irrompe da questo mio silenzio: “E vanno gli uomini ad ammirare le vette dei monti, ed i grandi flutti del mare, ed il lungo corso dei fiumi, e l’immensità degli oceani, ed il volgere degli astri. E si dimenticano di se medesimi.” Gli fa da eco il motto che Socrate aveva tante volte letto sul frontone del tempio di Delfi: “Conosci te stesso”.
Socrate aveva fatto di questo motto un cardine del suo pensiero. Lo predicava con coraggio e spregiudicatezza e spesso lo arricchiva di sfumature preziose come quella che si può cogliere in un’affermazione, stavolta propria del filosofo della ricerca e del dialogo:  “La conoscenza di se stessi nasce dallo stupore.”
Lancio un ultimo sguardo al paesaggio incantevole che ho raggiunto dalla scala, ne percorro a ritroso i gradini con la consolazione che lo stupore provato di fronte alla bellezza del Golfo con il suo mare e la montagna non potrà che aiutare la fatica della salita ad avvicinarmi a me stessa.

Giulia Martorelli

Giulia Martorelli: laureata in Lingue e letterature straniere all’Università di Bologna, è una cultrice della lingua tedesca. Insegnante, ha inseguito un sogno che l’ha portata – scarpette da trekking ai piedi – fino al mare.

Una vacanza intorno a un filo d’erba

27 febbraio 2014 at 15:16

filoderba

 

Concedetevi una vacanza intorno a un filo d’erba
Dove non c’è il troppo di ogni cosa
Dove il poco ancora ti festeggia
Con il pane e con la luce
Con la muta lussuria di una rosa

Franco Arminio

Sprecare passi

13 febbraio 2014 at 09:02

Io-viaggio-da-sola

 

“Sì, uscire, perché una cosa che io faccio sempre, oltre a leggere, è camminare: cammino quando devo pensare, quando sto male, quando sto bene, quando devo risolvere un problema. Se tutti fossero come me, i calzaturifici sarebbero più quotati delle società petrolifere. Mia nonna, per sbarazzarsi dai cattivi pensieri, usava il ventaglio. Ogni tanto, la sorprendevamo, e magari era gennaio, che si sventagliava a tutta birra. Lei usava il ventaglio, io uso le gambe (o, da un altro punto di vista, spreco passi). E’ questo che mi ha detto un’amica che un giorno è rimasta sbalordita dal fatto che, invece di aspettarla al ristorante dove avevamo appuntamento, le sono andata incontro”.

Maria Perosino, Io viaggio da sola, Einaudi

Collage di Camilla Paolucci

Balmat e Paccard: simboli della storia alpinistica

17 gennaio 2014 at 11:12

Paccard e Balmat

In quanti modi si può intendere la parola Cammino?
Andrea Marini, filosofo e ricercatore racconta – attraverso l’esperienza dei primi due alpinisti Paccard e Balmat – che esiste un Cammino in senso filosofico-esistenziale e un cammino che mobilita il Sè per raggiungere la vetta, la meta, il fine.
La montagna riunisce i due significati in una metafora per chi la affronta… in esergo, Valter Bonatti.

 

Le grandi montagne hanno il valore degli uomini che le salgono,

altrimenti non sarebbero altro che un cumulo di sassi.

 W. Bonatti

 

 

La montagna non è solamente un inerme ammasso di pietra e terra. È questo e molto altro.
È segno della natura e della storia, dello spazio e del tempo; è un simbolo che storicamente è andato mutando, con frequenza variabile. Il cambiamento non è qualcosa che avviene nell’instante dell’accadere, ma un lungo percorso preparatorio che ha un incedere singolare. Le terre alte, dunque, non sono solamente la spazzatura del mutamento della terra attraverso i secoli – come diceva John Evelyn delle Alpi; non sono solo ostacoli da oltrepassare – come lo erano stati per migliaia di viaggiatori o commercianti – o traguardi da raggiungere, come diverranno in seguito. Sono elementi caratteristici di un ambiente, di un territorio, di un paesaggio. Le Alpi sono il simbolo forse più autentico e plenario di tutto ciò. Quando Horace-Bénédict de Saussure alzò gli occhi al cielo, presumibilmente una mattina, e notò che il paesaggio che aveva di fronte – costante negli anni della sua vita, quasi inerme e immobile – aveva delle linee e degli elementi di bellezza unici, capì che gli parlava in una lingua che un grande scienziato come lui non poteva non riconoscere: la natura gli si rivolgeva mostrando una grafia che l’uomo a lungo ha tentato di decifrare, tramite segni che solo lo sguardo più attento e curioso riescono a cogliere nella loro particolarità e unicità. Quando il 3 agosto del 1787 il ginevrino giunse sulla vetta da lui tanto agognata, quella del Monte Bianco, non si lasciò trasportare però da sentimentalismi romantici, ma con audace spirito illuministico calpestò con vigore la neve e il ghiaccio che tanto lo avevano fatto stremare in quella lunga scalata al tetto d’Europa. Calpestò con vigore perché l’uomo, allora, si sentiva protagonista della storia universale. Pochi avevano fatto proprie le verità che le scienze e le filosofie stavano divulgando. L’uomo non era il re, ma semplicemente un elemento partecipante la grandezza della natura.
Così, de Saussure portava in sé la meraviglia e il dominio tipico di un’epoca, ma anche la brama e l’invidia. Infatti, quando pubblicò il secondo volume dei suoi Voyages dans les Alpes, 1778, non incluse tra i grandi esploratori del massiccio del Monte Bianco uno scienziato come lui: Michel-Gabriel Paccard. Quest’ultimo è ormai riconosciuto universalmente come l’artefice e il trascinatore della cordata – strano nome visto che allora si procedeva ancora slegati – che portò l’uomo sopra la vetta più alta d’Europa. Con lui vi era Jacques Balmat, cercatore di cristalli, conoscitore dell’ambiente alpino e, da quel momento, alpinista.
Poco meno di un anno prima dello scienziato di Ginevra, i due personaggi appena citati – per la precisione l’8 agosto del 1876 – posero i loro piedi su quella vetta da tanti bramata vuoi per il prestigio, vuoi per il succulento premio messo in palio da de Saussure per chi avesse trovato la strada per raggiungere la sommità del monte pallido per eccellenza, vuoi per il desiderio di scoperta e avventura. Ma un mito in quell’istante era caduto, gli spiriti cacciati da quelle altezze, ciò che era maledetto – Mont Maudit – era stato liberato dal suo fardello. Uscire dal mito ed entrare nella storia. Ma ben altro accadde quel giorno: iniziò una rivoluzione. Le Alpi non furono più solamente un luogo di passaggio, ma divennero un luogo di studio, di unione e divisione, un luogo di turismo, ma soprattutto lì nacque ciò che per noi ancora oggi è l’alpinismo. Non vogliamo qui ripercorrere le tappe di questa lunga storia che ancora oggi prosegue e nemmeno vogliamo riscrivere la storia di quei due giorni memorabili, ma solamente continuare a riflettere sui due principali protagonisti della prima salita al Monte Bianco.

Paccard e Balmat, citati in rigoroso ordine d’arrivo su quel cumulo di neve oltre il quale non si poteva che scendere, racchiudono in loro stessi due spiriti che hanno animato l’alpinismo e la sua storia.

Michel-Gabriel Paccard era un medico, giovane, laureato da poco all’Università di Torino che, per desiderio di scoperta e di conoscenza, aveva risposto al richiamo desaussuriano, tentando svariate volte di trovare la via giusta per la conquista della splendida vetta. Nei suoi anni di esplorazione alle pendici del Monte Bianco, il medico fu nominato anche socio e corrispondente della Reale Accademia delle Scienze di Torino. Il fardello non era quindi solo quello dello scienziato, ma portava su di sé le speranze della ricerca e della scoperta di un regno perché lì rappresentava più che la sua persona. Se -come dicevamo in apertura – le montagne non sono solo pietre, allora le persone e soprattutto chi fa la storia delle montagne non è solo carne e non è mai completamente solo; porta con sé, costantemente, le speranze e i desideri di molte altre persone – consciamente o meno. Lo spirito che lo animava era dunque affine a quello del borghese de Saussure, uno spirito di ricerca e di scoperta, tale che lo stesso Paccard, in quei due incredibili giorni, oltre alle provviste si portò sulle spalle pure gli strumenti necessari per le misurazioni scientifiche. Tant’è che si fermò alcune volte durante la sua salita per aggiornare e segnare il barometro. Questo non lo portò ad avere risultati esatti sull’altezza del Re d’Europa, ma dimostra quanto il suo spirito non era solo di dominio della natura: infatti non calpestava il ghiaccio e la neve, ma camminava alla ricerca di sapere e di un non-più-oltre che gli strumenti non potevano fornirgli. Era animato da uno spirito puro non corrotto da denaro: era mosso dalla curiosità, dal desiderio della scoperta che lo portarono – come la storia ha insegnato – ad arrivare primo su quel cucuzzolo. Non primo per un primato, non primo per un premio, ma per l’umanità e la conoscenza, per capire la grafia e il linguaggio della natura. Solo attraverso un’esperienza diretta, viva e attiva della natura grazie a uno sguardo contemplatore, si può giungere a scoprire il progetto implicito della natura e di quell’incredibile paesaggio. Fu – infatti – una sua intuizione dovuta ad uno studio mirato e approfondito del territorio, una dettagliata analisi geografica sul campo, a portarlo a trovare la via che si è poi rivelata quella giusta e vincente per quanto perigliosa e difficoltosa. Quel desiderio, quella volontà di potenza e conoscenza, è ciò che gli fece afferrare Jacques Balmat per il cappotto spronandolo a fare gli ultimi passi – e non il contrario come bugiarde storie raccontano. Paccard era mosso da uno spirito antico quanto l’uomo: era lo spirito della conoscenza.
Questa è una delle anime che mosse e muove ancora l’alpinismo in ogni parte del mondo e che ancora può fare tanto per il rapporto tra l’uomo e la montagna e più in generale tra l’uomo e la natura. Questo perché l’alpinismo non è solo l’arte di salire le montagne, ma è un modo di vivere ed esplorare il mondo in tutte le sue dimensioni e sfaccettature.
L’altra anima è quella rappresentata dal non meno importante Jacques Balmat. Il nostro montanaro di Chamonix vanta non solo il primato dell’ascesa al Monte Bianco, ma porta con sé e in sé un modo di vivere più schietto forse, sicuramente meno scientifico di quello rappresentato da Paccard, che narra dell’anima solitaria e introversa del montanaro e  dell’alpinista.
Balmat era un cacciatore di camosci e un cercatore di cristalli che faceva della montagna la sua vita e il suo lavoro. Era un tipo solitario, giovane e forte che per necessità rispose alla chiamata di un bando nel quale si prometteva un premio a chi avesse per primo individuato la via alla cima. Balmat non rispose al bando per brama di soldi, ma per necessità. Non era un uomo ricco e nemmeno benestante – se seguiamo i criteri della cittadinanza borghese, ma era un uomo che lavorava duramente e viveva la montagna nel sua aspetto più naturale, come elemento necessario al proprio sostentamento. Se Paccard durante l’ascesa, infatti, si fermò alcune volte per compiere delle misurazioni, è pur vero che Balmat durante i suoi tentativi di salita, sino al definitivo dell’8 agosto, aveva sfruttato le occasioni per cercare cristalli così da unire entrambe le necessità del momento.
Era anche lui molto intuitivo e forte fisicamente: anche se considerato un abusivo dalle guide di Chamonix – come ci ricorda Enrico Camanni, era da tutti ben voluto in quanto abile e robusto portatore e infaticabile camminatore. Sperimentò, durante uno dei tentativi, il primo bivacco sul ghiacciaio senza che gli spiriti lo intimorissero o torturassero nel sonno. Sopravvisse. Questa esperienza, come quella paesaggistica-indagativa di Paccard, furono altrettanto fondamentali per dare il via alla scalata definitiva che consacrò il sodalizio alpinistico tra uomo e montagna. Il resto è ormai storia e i più validi storici dell’alpinismo hanno già impresso la loro firma narrando questa incredibile e particolare vicenda.
I nostri due esploratori, come abbiamo visto, incarnano quindi due spiriti della storia alpinistica, quello più scientifico e filosofico e quello più pratico e legato ai bisogni di natura.
Noi crediamo che solo recuperando, diffondendo, ma soprattutto, integrando questi due spiriti e prospettive sulla montagna si possa fare molto per le montagne, le Alpi e l’uomo stesso. Nei momenti di crisi bisogna saper creare dei miti e coglierne gli insegnamenti che sanno darci. La crisi che il mondo attraversa non è solo economica, ma soprattutto una crisi di valori nichilistica. Ciò che le montagne e gli uomini di e della montagna possono insegnare è scritto e quotidianamente viene scritto con nuove esplorazioni e scoperte. La montagna è un elemento da vivere, studiare, capire ma soprattutto rispettare. Il Monte Bianco non è stato scalato grazie alla tecnica, ma in virtù della tenacia, dell’armonia con la natura, del desiderio e del genio. È un ambiente che ci ricorda che il progresso non avviene per sostituzione, ma per trasformazione – a volte molto lenta. Le Alpi più di tutti gli ambienti montani ci ricordano questa cosa e continuamente ci suggeriscono elementi per creare nuove prospettive comunitarie, economiche e politiche. Che le montagne siano simbolo di unione e armonia, non solamente delle pietre e che gli uomini siano degli Uomini, non solamente dei consumatori di terra.

Andrea Marini

Andrea Marini, laureato in filosofia con una tesi sul concetto di spazio nella prospettiva geofilosofica, collabora con le cattedre dei professori Davide Bigalli e Luca Bonardi, con le riviste “Nomos” e “Antarès”. Sta conseguendo un dottorato di ricerca in beni culturali e ambientali con una tesi sulle prospettive geofilosofiche delle Alpi a partire dall’analisi della storia dell’alpinismo. Svolge attività di ricerca su problematiche di natura estetica, paesaggistica, geopolitica e geofilosofica

Storia di un seme. Di un uomo che cammina e semina. Di un frutto.

23 dicembre 2013 at 09:07

Auguri

Questo post è stato liberamente ispirato dalla lettura di un libro ottimista, sensibile, intelligente, romantico, brillantemente verde.

Un passo dopo l’altro, John creò un frutteto.
Questo è l’incipit di una bella storia.

Ma possono essere legati la storia di un Cammino e quella di un frutto? Henry David Thoreau, che di cammino ne capiva, scrisse: “È sorprendente quanto la storia del melo sia strettamente legata a quella dell’uomo”.

Il nome dell’uomo? John Chapman, alias Semedimela che – recuperando i semi del pomo dagli scarti dell’industria del sidro a cavallo dell’Ottocento – iniziò a esplorare la frontiera americana anticipando l’arrivo dei coloni, spargendo i semi e impollinando la terra come un’ape laboriosa.

Robert Price, il suo biografo, disse di lui che “possedeva la spessa corteccia della stramberia”: uomo senza fissa dimora nei suoi vagabondaggi dormiva all’aperto, era vegetariano, considerava crudele abbattere alberi e cavalcare animali, iniziò a camminare scalzo dopo aver pestato con lo scarpone un lombrico.

Il suo profilo divergente, esasperato dal desiderio prometeico di piantare meleti, incontrava il favore degli americani cui portava l’edonismo del mito dionisiaco: l’ebbrezza del sidro. L’America, terra poco adatta alla crescita della vite, stimolava la ricerca del piacere col sidro, nonostante i suoi figli avessero giurato che non era questa la scaturigine del loro viaggio tra le due coste dell’Atlantico.

Ma il cammino della storia della mela era iniziato tempo prima: il melo è originario delle alture del Kazakhstan, dove passava la derivazione settentrionale della Via della Seta. Il nome Alma Ata, la città kazakha, significa “Il padre delle mele”. Da qui, il seme fu portato in Occidente dai mercanti di ritorno dalla Cina – magari sotto la suola delle scarpe o avvolti in brandelli di broccati di seta colorati. Vogliamo solo immaginare l’autunno Kazakho, le sommità delle alture spalmate di punti colorati che si spingono fin dove riescono a scendere a patti con l’altitudine quasi fossero appesi alle nuvole. Poi il seme giunse in America via mare coi Padri Pellegrini.

Il rispetto integralista di Chapman per la Natura, il suo ecologismo inconsapevole e reticente (e chissà: avrebbe accettato questa facile riduzione di sé?), fece sì che continuasse a diffondere semi dai sacchi di iuta e dalle tasche, confutando eticamente la tecnica dell’innesto inventata dai cinesi perché troppo dolorosa. Ma che indubbiamente produceva frutti dal sapore migliore: i meli nati da seme sono “talmente aspri da legare i denti a uno scoiattolo” avvisa Thoreau, che nel corso delle sue passeggiate deve averne assaggiate parecchie di malus domestica frutto dell’inseminazione casuale, paradigma romantico di quella riproduzione spontanea oggi dibattuta anche dagli esperti. Ma il puritanesimo aveva chiuso un occhio sull’edonismo suscitato dall’alcol in virtù delle immangiabili mele di John, nonostante al dio greco Dioniso la religione dei padri preferisse il culto del pensiero geometrico di Apollo (e si sa quanto sia difficile concepire antinomie vivendone la bellezza della mediazione pur conoscendone gli estremismi).

La storia della mela racconta più di altre la bontà del movimento in luogo della stasi con il suo spostarsi da un continente all’altro; quanto sia necessario descrivere e percepire il mondo come il posto del cambiamento di Eraclito, mentore di John Semedimela, piuttosto che il regno della stasi di Parmenide: questi non avrebbe previsto un futuro così glorioso per alcun essere vivente, considerando che la pura reiterazione dell’esistenza, in fondo, non è vita.

John Semedimela ha assecondato l’avanzamento della frontiera rispettando la natura; ha reso ebbro un popolo che voleva crescere all’ombra del Puritanesimo razionalista; ha rifiutato la vivisezione vegetale pur addomesticando la pianura ai suoi obiettivi con il fare sognatore di chi ama la montagna. Un vero funambolo degli opposti.

Elzeard Bouffier, “L’uomo che piantava gli alberi” piantava querce in montagna e sarebbe un bell’esercizio di critica letteraria azzardare un confronto tra i due, nella consapevolezza che il secondo è un personaggio inventato e, come tale, sempre all’altezza delle sovrapromesse fatte al lettore.

Questo post è stato liberamente ispirato dalla lettura di un libro ottimista, sensibile, intelligente, romantico, brillantemente verde.
Se avete la fortuna di conoscere una persona con queste “dolci” qualità ( è questo l’archetipo culturale, e non solo organolettico, della mela secondo l’autore), e a cui non avete ancora, colpevolmente, fatto un regalo: Michael Pollan, La botanica del desiderio, il Saggiatore.

Trattandosi, Pollan, di un brillante giornalista ambientale, le aporie scientifiche a vantaggio della narrazione sono della scrivente. Me ne assumo la responsabilità rivolgendovi auguri succosi!

Sulle tracce di Paul Salopek

10 dicembre 2013 at 10:18

PAUL SALOPEK

 

 

Il passero sulle tracce di Paul Salopek, il due volte Premio Pulitzer, che vede il suo futuro a bordo di un paio di scarponi: per sette anni camminerà ripercorrendo il viaggio dei primi uomini che lasciarono l’Africa per diffondersi nel globo fino alla Terra del Fuoco.

 

Anatomia di una mente compiuta: sulle tracce di Paul Salopek

“Camminare è cadere in avanti.

Ogni passo è un tuffo bloccato, un crollo scongiurato, un disastro evitato. In questo senso, camminare diventa un atto di fede che si ripete ogni giorno: un miracolo in due battute, un tenersi e lasciarsi andare. Per i prossimi sette anni cascherò in giro per il mondo.

Sono in viaggio. Inseguo un’idea, una storia, una chimera, una follia forse.”

 

Così inizia la prima tappa di un lungo e anti-giornalistico reportage storico, antropologico ed etnografico firmato dal giornalista e scrittore statunitense Paul Salopek.

Ma chi è costui? Occhiali, sguardo prensile, capelli rasati, 2 premi Pulitzer, un futuro nuovo che inizia con 33 mila chilometri. A piedi.

Questo, l’anello semantico di un rivoluzionario beachcomber  alle prese – da gennaio 2013 – con il trekking più lungo della storia: 7 anni, dalla Rift Valley alla Terra del Fuoco attraversando l’oceano, sulle orme dei primi colonizzatori del globo terracqueo.

 

I suoi progenitori? Con lui, in trigono perfetto: Jeff Jeffries (James Stewart) il fotoreporter innamorato – con qualche imperdonabile resistenza – di una dea, Lisa Freemont (Grace Kelly) ne La finestra sul cortile. E Bryan Brown, il giornalista del National Geographic sedotto, nelle avviluppate foreste del Congo, dall’intelligenza appuntita e dalla bellezza sportiva di Diane Fossey (Sigourney Weaver) naturalista-ricercatrice di Gorilla nella nebbia. Il primo: ricercata eleganza da grande Gatsby; il secondo, corporeità misurata da Bruce Chatwin.

 

Il suo antenato? Lo storico Erodoto che – nel V sec. a. C. – girava per il Mediterraneo raccontandone le storie e le genti, badando poco alla scientificità di un metodo non ancora inventato: previsti piccoli camei di personaggi mai esistiti, fatti non accertati, impressioni personali.

 

Ed è a partire dalle traiettorie sghembe dei suoi interessi; dal linguaggio letterario – più che giornalistico; da ciò che lascia conoscere di sé grazie a ciò che scrive che ricalcheremo l’anatomia – non autorizzata – dei suoi pensieri. Che cosa farà durante le soste mentre ripercorre il primo pellegrinaggio proto-imperialista della Storia? Accenderà un lume a olio; leggerà da un Mac; scriverà un post per il suo blog Out of Eden Walk dall’iPad; chiacchiererà nella redazione viaggiante in un inglese che, attraversato da un accento culturale all’altro, sembrerà tante lingue diverse; manderà la foto delle mani, indurite dal sole e arrossate dall’henné, di una guaritrice beduina che cauterizza parti del corpo come terapia; telefonerà nell’altro emisfero a chi si chiederà se sia credibile l’amore di un uomo in preda all’erranza millenaria; registrerà i ritmi ancestrali dei canti di chi naviga e sosta nel deserto, anelando alla sponda opposta come un marinaio della duna. O forse: avrà portato con sé la famiglia, vivendo un Cammino di formazione che nessun’altra esperienza didattica potrebbe surrogare. Lo vedo – disteso su una branda di bambù coperta da un batik colorato che rilascerà il blu dove sentirà più caldo – fumare (una Pall Mall, certo) e bere tè alla menta; ascoltare la voce mantrica di Lisa Gerrard che vibra l’Amen apotropaico di Song of dispossessed:

 

The river is deep and the mountain high

How long before the other side

 

Da giorni seguo le sue orme, preferendo alla scienza aristotelica un orientamento patafisico al mondo. Mi incuriosiscono i suoi dispacci postati sul blog, unici indizi per scoprire quale tipo d’uomo sia questo bucaniere scarponiaipiedi. Il caso, come in molte scoperte, ha fatto il resto. Consigliata da Caterina Venturini, ho iniziato a leggere ‘Libertà ‘ di Jonathan Franzen. Quello che vi ho trovato a pagina 14 è stato un vaticinio. C’è chi ha reso letteratura i miei gusti in fatto di Teste ben Fatte:

 

Connie non costituiva una minaccia per una persona compiuta come Jessica. Connie non sapeva che cosa fosse la completezza: era tutta profondità e niente superficie. Quando colorava con i pennarelli, si limitava a saturare d’inchiostro qualche zona del foglio, come incantata, lasciando il resto in bianco e ignorando le allegre esortazioni di Patty a provare qualche altro colore.”

 

Una testa è ben fatta, come quella di Jessica, se è un’apologia della completezza,  flessibile a varie forme di conoscenza, se tratta con cura ogni singolo dettaglio compresi i più belli, quelli frivoli. Immagino così questo globe-trotter: un uomo dallo sguardo ecologico; una persona che – learning by doing – fa di sé un ecosistema di saperi intemperanti e sconnessi, raccontando con intensità e integrandosi in ciò che vede.

 

Volete una prova dell’anatomia di uno sguardo completo del moderno Erodoto? Sedetevi, ascoltate la canzone  dei Dead Can Dance e leggete: questa è una mia traduzione dall’inglese del suo ultimo post. È stato scritto in Arabia Saudita, sul Mar Rosso: 11 mesi di futuro sono già alle spalle. Il suo sguardo ipertrofico sulla natura e la Storia è attento alle parole che risuonano come solo uno scrittore sa fare; è carico di rimandi culturali e storici, che nascondono interessanti novità.

 

Cacciamo e facciamo provviste sul Mar Rosso.

Gassman al Faidi, il nostro nuovo addetto alla logistica, giovane e carismatico Hemingway, dispone le lenze tra le onde della sera. Lo fa più e più volte arrotolando il fine filamento all’indice. Sente il lento richiamo dell’onda, la vibrazione dell’uncino quando urta i coralli, la leggera spinta provocata dalla bocca di un pesce quando prova l’esca 20 o 30 yards sotto il pelo dell’acqua.

Stiamo facendo così da molto tempo: l’amo più vecchio, fatto di conchiglia, è stato trovato a Timor Est in una grotta marina. Risale a 23 mila anni fa.

 

Ma noi vagabondiamo da prima. Nel Pleistocene, 60 mila anni fa, quando gli uomini anatomicamente compiuti lasciarono l’Africa per diffondersi nel mondo, il livello delle acque del mare era più basso di quello attuale. La teoria prevalente sostiene che gruppi di camminatori cacciatori percorrevano le diffuse rotte create dai recenti terrazzamenti. Emergevano ponti di terra che facilitavano gli spostamenti. Sotto il Mar Rosso, una montagna – chiamata Hanish Rill- può aver spinto da sotto le onde offrendo punti di appoggio tra l’Africa e l’Asia, facilitando così la traversata a nuoto o in canoa. Nuove scoperte riscrivono i libri di Storia, modificando le nostre cognizioni sulle colonizzazioni costiere dei primi uomini.

 

Non continuerò traducendo l’intervista a un Funzionario della Cultura dell’Arabia Saudita il cui titolo, però, può essere chiarificatorio: il Mar Rosso. Un ponte, non una barriera. (Leggetela, merita).

 

Dalla preistoria via paleontologia; dalla cultura via piatti tradizionali, Paul Salopek racconta il mondo con il linguaggio universale della fotografia (correte a guardare e poi … Tornate!), con dispacci di narrazioni ‘lente’, ponendosi all’origine di un nuovo genere narrativo, lo slow journalism, che forza contenitori nati per soddisfare curiosità rapide e che non temono la superficialità, laddove necessiti: blog e social media. Lui ha abiurato a questo genere: i suoi post sono lunghissimi – a volte colti, altre divertenti; vi si narrano dettagli che affondano nelle discipline più varie, mettendo alla prova una visione anti-monolitica del conoscere, la curiosità di raccontare dettagli irrelati, approfondire minimalia senza attribuire gerarchie alla conoscenza. Rispetta, così, la mente  e i principi sottesi alla scoperta più che alla comunicazione.

 

D’altronde: uno degli sponsor del viaggio, oltre al National Geographic e a qualche altra non minore istituzione, è l’Università di Harvard: è stata predisposta una sezione del blog dedicata alle risorse didattiche. Tutte le scuole possono accedere a questa esperienza inserendo nella routine della pratica – senza rischio alcuno di banalizzare – un sapere dinamico di notevole interesse storico, naturalistico, scientifico.

 

Quale frase rappresenta meglio Paul Salopek? ”Se in un primo momento l’idea non è assurda, allora non c’è nessuna speranza che si realizzi” – Albert Einstein. Incisa?

 

Camilla Paolucci

 

Disegno di: Lorenzo Paolucci

il sito: http://www.outofedenwalk.com

il blog http://outofedenwalk.nationalgeographic.com