Storia di un seme. Di un uomo che cammina e semina. Di un frutto.
Questo post è stato liberamente ispirato dalla lettura di un libro ottimista, sensibile, intelligente, romantico, brillantemente verde.
Un passo dopo l’altro, John creò un frutteto.
Questo è l’incipit di una bella storia.
Ma possono essere legati la storia di un Cammino e quella di un frutto? Henry David Thoreau, che di cammino ne capiva, scrisse: “È sorprendente quanto la storia del melo sia strettamente legata a quella dell’uomo”.
Il nome dell’uomo? John Chapman, alias Semedimela che – recuperando i semi del pomo dagli scarti dell’industria del sidro a cavallo dell’Ottocento – iniziò a esplorare la frontiera americana anticipando l’arrivo dei coloni, spargendo i semi e impollinando la terra come un’ape laboriosa.
Robert Price, il suo biografo, disse di lui che “possedeva la spessa corteccia della stramberia”: uomo senza fissa dimora nei suoi vagabondaggi dormiva all’aperto, era vegetariano, considerava crudele abbattere alberi e cavalcare animali, iniziò a camminare scalzo dopo aver pestato con lo scarpone un lombrico.
Il suo profilo divergente, esasperato dal desiderio prometeico di piantare meleti, incontrava il favore degli americani cui portava l’edonismo del mito dionisiaco: l’ebbrezza del sidro. L’America, terra poco adatta alla crescita della vite, stimolava la ricerca del piacere col sidro, nonostante i suoi figli avessero giurato che non era questa la scaturigine del loro viaggio tra le due coste dell’Atlantico.
Ma il cammino della storia della mela era iniziato tempo prima: il melo è originario delle alture del Kazakhstan, dove passava la derivazione settentrionale della Via della Seta. Il nome Alma Ata, la città kazakha, significa “Il padre delle mele”. Da qui, il seme fu portato in Occidente dai mercanti di ritorno dalla Cina – magari sotto la suola delle scarpe o avvolti in brandelli di broccati di seta colorati. Vogliamo solo immaginare l’autunno Kazakho, le sommità delle alture spalmate di punti colorati che si spingono fin dove riescono a scendere a patti con l’altitudine quasi fossero appesi alle nuvole. Poi il seme giunse in America via mare coi Padri Pellegrini.
Il rispetto integralista di Chapman per la Natura, il suo ecologismo inconsapevole e reticente (e chissà: avrebbe accettato questa facile riduzione di sé?), fece sì che continuasse a diffondere semi dai sacchi di iuta e dalle tasche, confutando eticamente la tecnica dell’innesto inventata dai cinesi perché troppo dolorosa. Ma che indubbiamente produceva frutti dal sapore migliore: i meli nati da seme sono “talmente aspri da legare i denti a uno scoiattolo” avvisa Thoreau, che nel corso delle sue passeggiate deve averne assaggiate parecchie di malus domestica frutto dell’inseminazione casuale, paradigma romantico di quella riproduzione spontanea oggi dibattuta anche dagli esperti. Ma il puritanesimo aveva chiuso un occhio sull’edonismo suscitato dall’alcol in virtù delle immangiabili mele di John, nonostante al dio greco Dioniso la religione dei padri preferisse il culto del pensiero geometrico di Apollo (e si sa quanto sia difficile concepire antinomie vivendone la bellezza della mediazione pur conoscendone gli estremismi).
La storia della mela racconta più di altre la bontà del movimento in luogo della stasi con il suo spostarsi da un continente all’altro; quanto sia necessario descrivere e percepire il mondo come il posto del cambiamento di Eraclito, mentore di John Semedimela, piuttosto che il regno della stasi di Parmenide: questi non avrebbe previsto un futuro così glorioso per alcun essere vivente, considerando che la pura reiterazione dell’esistenza, in fondo, non è vita.
John Semedimela ha assecondato l’avanzamento della frontiera rispettando la natura; ha reso ebbro un popolo che voleva crescere all’ombra del Puritanesimo razionalista; ha rifiutato la vivisezione vegetale pur addomesticando la pianura ai suoi obiettivi con il fare sognatore di chi ama la montagna. Un vero funambolo degli opposti.
Elzeard Bouffier, “L’uomo che piantava gli alberi” piantava querce in montagna e sarebbe un bell’esercizio di critica letteraria azzardare un confronto tra i due, nella consapevolezza che il secondo è un personaggio inventato e, come tale, sempre all’altezza delle sovrapromesse fatte al lettore.
Questo post è stato liberamente ispirato dalla lettura di un libro ottimista, sensibile, intelligente, romantico, brillantemente verde.
Se avete la fortuna di conoscere una persona con queste “dolci” qualità ( è questo l’archetipo culturale, e non solo organolettico, della mela secondo l’autore), e a cui non avete ancora, colpevolmente, fatto un regalo: Michael Pollan, La botanica del desiderio, il Saggiatore.
Trattandosi, Pollan, di un brillante giornalista ambientale, le aporie scientifiche a vantaggio della narrazione sono della scrivente. Me ne assumo la responsabilità rivolgendovi auguri succosi!